Considerazioni personali prodotte dall’analisi di alcune opere esposte in tre gallerie di MiArt 2025
Il tema scelto dal direttivo della fiera Miart per l'anno 2025 viene lanciato in un contesto sociale e politico dove dialogo e amicizia (intesa non solo come affetto, ma soprattutto come riconoscimento identitario dell'appartenenza di tutti gli uomini a un'unica specie) sono beni sempre più rari e preziosi: nel mondo attuale, dove individualismo mercantile (ben presente nel contesto dell'arte!) e terribili presagi di non troppo remoti scenari di guerra totale sono due facce della stessa medaglia, la più importante fiera d'arte della Penisola percepisce la necessità di porre come linea tematica il motto talks among friends (dialogo tra amici), che appare come un'esortazione al mondo dell'arte a riscoprire le dinamiche profonde del movimento creativo e plurimillenario dell'umanità, che non è mai stato individuale se non nelle sue manifestazioni superficiali, bensì collettivo e intergenerazionale.
La scelta di questa asserzione al dialogo e all'amicizia non dovrebbe essere foriera di stupore: chi non percepisce l'arte in ogni sua manifestazione come un semplice calcolo quantitativo e una volgare compravendita di piccoli e grandi capolavori (descritti a scopo mercantile come parossismi della pura creazione svincolata e indipendente di individui superdotati!) sa bene che, in verità, quelle che noi percepiamo come opere nate dalla mente di uomini concepiti come astratti sono solamente la manifestazione ultima di tutto il processo produttivo, spirituale e creativo dell'Umanità intesa come entità unica e continua; esse sono splendidi tasselli di un patrimonio plurimillenario, orizzontale e verticale al tempo stesso, in cui ogni generazione si fonde con tutte le altre scomparendo nell'ente totale.
In estrema sintesi, ''dialogo'' (inteso come dialettica connessione) e ''amicizia'' (consapevole o inconsapevole collaborazione), unendosi indissolubilmente tra loro, producono l'imperitura e attiva meraviglia dell'uomo di fronte al creato: ovvero l'arte.
Attraverso l'analisi di alcune opere esposte in tre gallerie di MiArt 2025 cercheremo di intercettare questo filo conduttore e il loro legame con il messaggio lanciato dagli organizzatori dell'esposizione.
Tre gallerie di MiArt 2025:
Maternità e amore cosmico sono le due sublimi sostanze che impregnano le tele di Francesca Banchelli (link: FRANCESCA BANCHELLI - paintings), esposte allo stand della Galleria Vistamare (link: Vistamare - Art Gallery).
Le sue opere sono caratterizzate da un'indefinitezza non realistica dei soggetti che rimanda a una relazione profonda con il mondo subconscio, a una connessione di fondo tra il nostro essere fisico e la nostra componente subrazionale che impregna la totalità ontologica dell'Uomo.
I contorni dei soggetti rappresentati sono sfumati e fluidi esattamente come quelli degli oggetti o del paesaggio che li circonda, come a voler indicare un'identità comune e sostanziale tra le diverse componenti della psiche umana e tra loro e il mondo circostante, in una profonda e avvolgente dimensione energetica; mentre i colori morbidi e vellutati conferiscono ai suoi quadri un carattere di serenità insita nella medesima relazione sopraindicata.
Un'opera della giovane artista (nata nel 1981) esposta a MiArt 2025 dalla Galleria Vistamare afferma esplicitamente la sublime connessione tra la nostra vita e la vita dell'universo che ci circonda, nel suo supremo e umano compimento intergenerazionale: si tratta di ''Raccontami la fiducia'' (link: Francesca Banchelli | Raccontami la fiducia/ Tell Me About Trust ☄️🕳️ 2025 Oil on canvas 80x60cm #francescabanchelli | Instagram), dipinto del 2025 nel quale sono raffigurate una madre e una figlia dai tratti onirici che si intrattengono in un dialogo mistico, in un luogo al di fuori del tempo e dello spazio. La madre, impegnata in una lettura ad alta voce di fronte alla figlia, tiene tra le mani l'unico vero libro sacro esistente, il volume che racconta la meravigliosa storia dell'Umanità che ha attraversato tutti i tempi e tutti i luoghi grazie al suo ancestrale e spontaneo sentimento della fiducia: fiducia nei confronti dei figli, dei padri, delle madri e dei propri simili; nei confronti delle creazioni del proprio lavoro; nei confronti degli animali, delle piante e del creato, donatore di nutrimento e bellezza; e anche nei confronti di tutte le stratificazioni della propria personalità, che non devono essere poste in un rapporto valoriale o gerarchico tra loro ma semplicemente armonizzate in un giusto equilibrio.
Quale sintesi suprema della fiducia intesa come archetipo così fisico e metafisico al tempo stesso è più fulgida di quella offertaci dalla maternità?
E' nella maternità infatti che si compie l'involontario affidamento alle cure di una persona che per congenita percezione si considera amica, rapporto elementare, così tellurico e così celeste, che si sviluppa prima, durante e dopo la nascita biologica, superando quest'ultima in un rapporto verticale che annulla il linearismo cronologico e deterministico.
Se l'amore materno è certamente il compimento più profondo e naturale della dimensione simbiotica del cosmo, ciò non implica la negazione valoriale e qualitativa di un'altra sublime esperienza amorosa e connettiva, che se vissuta al di là del banale e scontato soddisfacimento idraulico e meccanico costituisce una potente rampa di lancio verso un innalzamento mistico della propria spiritualità e capacità emotiva e metasensoriale: si tratta dell'affetto sensuale, raffigurato magistralmente dalla giovane californiana Lauren Wy (1987) nella sua dimensione totalizzante e pervasiva. Le opere della pittrice (link artista e opere: Lauren Wy) sono state esposte alle pareti dello stand della Galleria Simòndi (Link: SIMÓNDI GALLERY) e consistono in dipinti su tela e in una interessantissima serie di piccoli pannelli di legno pieghevoli dal titolo ''Autodesire'' (2021): ci troviamo di fronte a una rappresentazione dinamica e dionisiaca dell'amore corporeo, in cui i colori indefiniti e sfumati e le forme astratte e scomposte conferiscono carattere di costante mutevolezza alla situazione. E' un movimento che permea tutte le entità rappresentate, deformando sia gli uomini che gli oggetti inanimati, ai quali viene trasmessa energia vitale per mezzo della forza amorosa e sessuale che impregnando il contesto li rende antropomorfi: così, ad esempio, nell'esposto capitolo 8 di questa serie di libri in legno, assistiamo a un vortice amoroso, manifestantesi in una corrente nebulosa di energia erotica dalla quale appaiono confuse delle parti scomposte di corpo umano e che permea totalmente gli enti circostanti trasformandoli in oggetti di desing antropomorfo dai tratti femminili e sensuali.
E' la forza plasmatrice dell'atto sessuale più nobile (ovvero, il più gustato e il meno artificiale), in cui la separazione tra oggetti e corpi viene finalmente compresa come una fallace illusione percettiva e cerebrale (e in cui, appunto, si realizza la certezza dell'auto-desiderio), aprendo la strada alla visione della realtà atomica, organica e pura e per questo così piacevole nonostante la sua intrinseca qualità incerta e dinamica: non sarebbe infatti sbagliato affermare che proprio l'attività sessuale degli esseri umani, quando si trasforma in catalizzatore spirituale, costituisca un'arte vera e propria; quale arte può essere veramente nobile se non quella in cui ci si proietta corporeamente e in prima persona in una dimensione metafisica e universale? Quale miglior oggetto della ricerca artistica può essere immaginato se non la prassi per mezzo della quale si accede alla propria conoscenza esteriore e interiore, modificando totalmente il proprio essere e la stessa percezione che abbiamo di noi stessi e della vita?
Quest'ultimo aspetto appare nitidamente in un'altra opera esposta nel medesimo stand, una tela in cui è raffigurato un atto sessuale consumato su un divano, dal titolo ''Funny game'' (2022): una donna, in preda al piacere carnale consumato tra le braccia del suo uomo, sperimenta la scomposizione dell'oggetto (o meglio, si accorge dell'inganno della definizione dell'oggetto) e la realtà poliedrica e relativa della sua stessa corporeità per mezzo della moltiplicazione e dello smantellamento della sua fisicità materiale.
L'atto per mezzo del quale si può superare la definizione oggettuale non è affatto una garanzia contro il necessario ritorno del limite, seguente alla scomposizione medesima: come potremmo infatti concepire l'universale se, dopo averlo compreso come astratto e indefinito, non lo riconducessimo alla definizione formale e identitaria dell'oggetto? le due fasi sono susseguenti ma allo stesso tempo parallele e, nel loro alternarsi e integrarsi dialettico, si compie la presenza inscindibile delle due dimensioni, quella particolare e quella cosmica, in cui il limen oscilla tra la sua morte e la sua resurrezione.
Gli artisti esposti nello stand della 193 Gallery (link: 193 Gallery) portano virtuosamente a compimento questa sintesi ineluttabile dettata dalla dinamica ciclica della logica e dell'elaborazione esperienziale, optando per una rappresentazione di oggetti dai contorni definiti e geometrici, immersi in una dimensione onirica e liminale dove il contrasto percettivo delle figure si risolve nell'armonia dell'oggetto archetipico nel contesto extraspaziale ed extratemporale del paesaggio e dello sfondo: stiamo parlando del giovane neozelandese Rob Tucker (link: Rob Tucker | 193 Gallery) e dell'ancor più giovane Ben Arpea ( Link: Ben Arpéa | 193 Gallery), proveniente da Parigi.
Il primo dei due artisti dipinge principalmente nature morte di frutti e utensili familiari e quotidiani, dai contorni definiti ma innocui e rassicuranti, immergendoli in un contesto placido e sereno dai colori estivi e vividi, che conferiscono alle figure un carattere di felice e amabile integrazione e connessione; l'assenza figurativa di entità personali si percepisce come una augurabile e tranquilla lontananza degli uomini dai loro oggetti di tutti i giorni, grazie alla quale questi ultimi acquistano una propria vitalità, facendosi vettori interpretativi e narratori della presenza umana.
I paesaggi crepuscolari e liminali del francese Ben Arpea, anch'essi privi di figure umane, definiscono geometricamente oggetti naturali e artificiali rendendoli immutabili e idealizzati e trasmettendo al visitatore la sensazione onirica di totale assenza di aggressività e incertezza; i quadri sono caratterizzati da una stratificazione rassicurante e conciliatoria, dove l'orizzonte non sovrasta la terra e gli oggetti presenti appaiono convenientemente e serenamente proporzionati tra loro. Qui i pochi oggetti artificiali, lungi dall'essere vettori di una seppur lontana presenza umana, si manifestano come puri archetipi, la cui esistenza si afferma a priori e distintamente da quella delle persone.
Dialogo e amicizia, dinamismo dialettico e simbiosi, scambio costante e connessione perpetua non sono prerogative dell'Uomo, per il quale (soprattutto nei nostri tempi ultimi) si presentano in forma effimera e falsa, ma di tutta la materia presente nell'universo, che è vivente e immortale proprio in quanto si trasforma in infinite possibilità formali. Contemplare e prendere esempio da ciò che esiste dall'eternità, da ciò che stupidamente si considera privo di vita e coscienza, potrebbe essere l'unica nostra possibile soluzione di salvezza.